Libera narrazione di Antonio Di Lorenzi

Ah, davvero formidabili quegli anni, gli anni ’70, gli anni in cui ero un brutto giovane di belle
speranze. Iscritto all’Università, alla Facoltà di Farmacia e con la mia famiglia che gestiva il bar
della Bocciofila Ernesto Savio (in seguito Bocciofila Corniglianese) in Piazza Rizzolio a Cornigliano.
Si trattava di un “fumosissimo” locale dove la maggior parte dei frequentatori era costituita da
pensionati di Cornigliano che trascorrevano lì una buona parte della loro giornata. C’erano sette
campi da bocce che ospitavano sia gare sociali che importanti tornei e c’era il bar, il caro e vecchio
fumoso bar. Proprio in quegli anni, fra un esame di Chimica ed uno di Anatomia, mi capitava di
fare il “barista aggiunto”, quando cioè per motivi impellenti, ero costretto a dare una mano ai miei
genitori. Essere baristi in una società di pensionati, che ti piaccia o no, significa imparare a
conoscerli, entrare nelle loro teste e perfino a ragionare come loro: tutto questo, per un giovane
come me a quei tempi, significava…imparare a conoscere la vita. Quante cose utili ho appreso da
loro, oltre che a parlare il dialetto genovese. In breve tempo e con frequentazioni costanti impari a
conoscerli, a tracciare un loro profilo, a conoscere le loro abitudini e perfino a scovare qualche
aspetto comico che li caratterizza. In pratica, si trattava di una “famiglia allargata”: ci si
conosceva. Ancora oggi, sarei in grado di ricordarli tutti, teneramente, uno per uno senza
distinzione, ma l’elenco finirebbe per essere troppo lungo ed esulerebbe da questo racconto. Ce
n’era uno in particolare, di questi pensionati, che si attardava a chiacchierare sempre con me
mentre rimescolava lo zucchero nella tazzina del caffè: “U Tranviere”. Parlavamo di bocce, di vita,
di Genoa e di Sampdoria e di film visti alla TV. Poi, alle quattro e mezza del pomeriggio, si
rimetteva il cappello e correva di corsa a casa, in Via Guido Agosti, a vedere “La TV dei Ragazzi”
che trasmetteva “Furia cavallo del West”. Come non provare tenerezza di fronte ad una simile
evidenza. L’anziano non è altro che un bambino truccato da vecchio. Ebbene in quei giorni, ogni
tanto si avvicinava al banco e mi parlava di “Villa Rachel” la bella villa che sorgeva un tempo,
proprio lì, proprio dove io e lui stavamo parlando in quel momento. Confesso che a quei tempi di
Villa Rachel non mi importava proprio niente o quasi, ma un po’ per educazione e un po’ per
rispetto nei suoi confronti, lo stavo comunque ad ascoltare. Pertanto, fu proprio lui che mi
raccontò per la prima volta dell’esistenza di questa villa di Cornigliano, adibita ad Hotel di lusso.
Villa che fu poi abbattuta nel 1935 in piena epoca fascista, per fare posto all’attuale palazzo del
Commissariato di Polizia. Ebbene, solo oggi, che a mia volta sono un pensionato e soprattutto oggi
che mi sento un… bambino truccato da vecchio, mi va di rispolverare questa antica notizia, questa
vecchia informazione che ho conservato dentro di me senza averne troppa cura, negli anni fin qui
vissuti.
Quando ho avuto la conferma che una buona parte dei corniglianesi (doc o presunti tali) non
conosceva l’esistenza di “Villa Rachel”, ho sentito il bisogno di “scavare” attorno a questa villa,
scavare idealmente nel passato al fine di “tirare su” di portare in superfice, notizie quanto più
veritiere possibile. Lo so per certo, quando si passa da Piazza Rizzolio e ci si imbatte in
quell’edificio rossastro di epoca fascista, tutto forza e muscoli, con quell’orologio sulla torre che da
non so quanti anni segna imperterrito le “5,05”, non si pensa certo a Villa Rachel, non si immagina
di sicuro una bella donna rampante assetata di potere e di denaro, non si fantastica su un esule
dalla Corsica perseguitato politico nonché scrittore, non si concepisce un giovane e sfortunato
pittore dalla vita breve e drammatica e non si riesce a vedere un certo Cesare Abba non già come
uomo, come eroe del Risorgimento e poi ancora come un ottimo insegnante, ma unicamente
come ad un Istituto Tecnico di Ragioneria. Si passa da Piazza Rizzolio senza pensare minimamente
a cosa c’era un tempo, nel punto preciso in cui stiamo appoggiando i nostri piedi. E così, scavando
a mano nuda fra le scarse notizie su Cornigliano mi sono ben presto accorto che questa “storiella
sentimentale”, (consumatasi velocemente mentre stava passando da qui la “Storia” quella vera,
quella dei libri di scuola), era in un certo senso, rimasta intrappolata fra le esili mani e le logore
matite di un giovane pittore di Molassana, fintanto che, le stesse medesime mani, non avevano
tratteggiato su tela il ritratto di un volto che a sua volta, determinerà altre conoscenze.
Complicato? Non credo proprio.
Un filo tira l’altro, una persona conosce l’altra fino…fino ad approdare a Villa Rachel, fino ad
arrivare a Cornigliano. Villa Rachel, come del resto Castello Raggio, sono stati distrutti dalla Storia
e dall’uomo, sono stati abbattuti entrambi per far posto ad un “qualcosa d’altro” che non ha mai
convinto nessuno. Ma, mentre da un lato Castello Raggio gode tuttora di una notorietà assoluta ed
incontrastata, corredata da una pletora di fotografie e documenti da far invidia ad una soubrette,
di Villa Rachel esistono pochissime (due?) immagini ed una storia appena tracciata. Villa Rachel fu
abbattuta soltanto quindici anni prima di “sua maestà” Castello Raggio e questo fu sufficiente per
essere misteriosamente inghiottita nell’oblio, ad essere prontamente insabbiata alla memoria dei
corniglianesi, quasi a volerne cancellare il suo passato. Attraverso una manciata di pubblicazioni
ricoperte da un palmo di polvere digitale (che in coda a questo documento avrò cura di
menzionare) mi sono divertito a mettere assieme degli autentici “mozziconi di notizie”, delle
semplici frattaglie di informazioni di seconda o terza mano, nel tentativo di farle combaciare fra
loro in modo da produrre un racconto, una storia di senso compiuto che si reggesse sulle proprie
gambe. Posso dire che in massima parte è davvero stato così, mentre per alcuni “trascurabili”
aspetti, ho dovuto ricorrere a quel particolare tipo di “stucco” che serve a tenere assieme più
storie che marciano parallele, nel preciso intento di farne diventare una sola. Ecco quindi Villa
Rachel ed i personaggi che l’hanno popolata, o vissuta anche marginalmente, nella seconda metà
dell’800.
Dicembre 1856, a Cornigliano come in qualsiasi altro posto, il Natale si avvicina a grandi passi.
Fa un freddo cane, non c’è neve, ma la gente che percorre la Via Provinciale, (oggi Via Cornigliano)
sempre abbondantemente imbrattata, passando davanti a “Villa Pellegrini”, è imbacuccata a
dovere. Una villa di antica proprietà degli Spinola, una villa che in capo ad un’ottantina di anni a
partire da adesso, non lascerà più alcuna traccia di sé. Eppure, nonostante questa “breve vita
edilizia” che le resta ancora da percorrere, la villa nasconde tanta Storia e tante storie da
raccontare. Siamo in pieno Risorgimento, Cavour ed il Re Vittorio Emanuele II, sono sotto il
dominio austriaco. Cavour si deve privare dei territori di Nizza e di Savoia in cambio di un’alleanza
con Napoleone III al fine di liberarsi dello straniero in casa. Mazzini, Garibaldi, i “moti” di
insurrezione e la “Seconda Guerra d’Indipendenza” sono alle porte. Tutto freme, come il fango
della Via Provinciale al passaggio delle carrozze, e l’Italia, come sempre e da sempre, è divisa in
due: i moderati, come il Cavour che aspirano all’indipendenza attraverso la diplomazia e la politica
di stampo conservatrice, ed i repubblicani, con gli stessi intenti dei moderati ma, la loro via passa
attraverso azioni decise e dirette, con una politica progressista. Qui a Cornigliano, i fratelli Dufour,
(Lorenzo, Carlo e Luigi) sicuramente “moderati”, avviavano una fabbrica di chinino e Lorenzo, di lì
a qualche anno, sarebbe diventato Sindaco proprio di Cornigliano. Ebbene, proprio mentre mi
capita di scrivere queste note, intirizzito dal freddo con le scarpe infangate, questa elegante villa di
proprietà dell’avvocato pisano Giacomo Pellegrini è chiusa e delimitata sulla Via Provinciale da
un’enorme cancellata. All’interno, lontano dagli schizzi di fango provocati al passaggio delle
carrozze, uno stupendo giardino popolato da eucalipti, aranci e tigli. La villa poi, è un grande
caseggiato che si sviluppa su tre piani. Una piccola parte di essa è adibita (in affitto) a Locanda,
sotto la gestione di una giovane donna molto intraprendente la cui madre gestisce un negozio di
stoffe e articoli per signore, in pieno centro a Genova, “nei vicoli” come usa dirsi. La restante parte
del caseggiato è composta da appartamenti che l’avvocato Pellegrini, unico proprietario dell’intera
struttura, affitta a gente di passaggio o a chi presta lavori in Cornigliano. Questa “bella
Locandiera” dagli occhi penetranti e scuri non può, di tanto in tanto, esimersi dall’andare in città a
dare una mano a sua madre in negozio. Pertanto, una o due volte a settimana, Rachele abbandona
la locanda di Cornigliano per occuparsi di stoffe e vestiti per signore. Sempre nella villa, ma in una
delle stanze in affitto, alloggia invece un avventuroso livornese pieno di guai e di idee. E’ arrivato a
Cornigliano da pochi giorni dalla Corsica, fuggito da un esilio troppo soffocante e mal tollerato.
Sono state proprio le sue idee, ritenute troppo sovversive, troppo filo-mazziniane, e troppo
repubblicane a convincere il Cavour a confinarlo fuori…dai suoi piedi. Ma lui, cinquantenne
stagionato dall’animo fin troppo ribelle simile a quello di un ragazzino, non si era lasciato tenere in
scacco troppo a lungo. Attraverso una serie di peripezie che definirle avventurose sarebbe fin
troppo riduttivo, è approdato proprio qui a Cornigliano riuscendo ad affittare una stanza in questa
villa tenuta un po’ nascosta dai tigli e dagli eucalipti. Davvero un posto ideale per riallacciare i
contatti con i patrioti genovesi che lo avevano in gran stima. Domenico Guerrazzi, livornese
purosangue dall’infanzia devastante che lo aveva segnato in modo irreversibile nel carattere.
Padre e madre pessimi, contribuirono ad indurire il suo carattere come il cuoio. In una sua
biografia spunta questo passaggio duro come un macigno:
“Procreato per svista ed auspici avversi…”
Passaggio che la dice tutta sulle sue origini. Tutto questo lo renderà rissoso, bisbetico, polemico,
aggressivo, odiava gli ebrei ed aveva davvero una scarsa stima nei confronti delle donne, salvo
qualche rara eccezione, come vedremo più avanti. Ma anche le sue idee garibaldine contribuirono
non poco a procurargli numerosi grattacapi, tanto è vero che collezionò una serie incredibile di
arresti, espulsioni e confinamenti di vario genere. Una personalità davvero controversa al punto
che si sarebbe potuto definire un…nazista con idee progressiste o ancora meglio, un progressista
con qualche debolezza nazista. Nel 1822 ancora diciottenne, viene (tanto per cambiare) espulso
dall’Università di Pisa per motivi politici. In breve tempo però, diventerà uno scrittore di discreto
successo con alcune opere di stampo patriottico. Un po’ la politica, un po’ la scrittura lo elevarono
in breve tempo, fino a raggiungere una discreta notorietà. Adesso però, con il vostro permesso, mi
allontano solo per qualche pagina da Cornigliano per spostarmi in centro, concedo un po’ di tempo
al “toscanaccio ribelle” per sistemare il suo bagaglio, di ambientarsi a Cornigliano e di guardarsi un
po’ attorno. Scopriremo fra non molto, che “il nostro” si sarà guardato anche fin troppo
bene…intorno. Nel frattempo io, che devo soltanto registrare questi eventi, prendo una carrozza a
scrocco e scendo all’inizio di Via Carlo Alberto (Gramsci), mi infilo su per Via Del Campo, scendo a
passo lento per Fossatello proseguo in San Luca, risalgo per la Maddalena ed infine giù, mi fiondo
in Piazza Della Posta Vecchia. Eccolo dunque il negozietto della signora Gavoglio. Nell’ampia porta
di legno scuro e vetri, fa capolino nella parte alta un’insegna dipinta con cura e a mano, tinteggiata
in giallo ocra:
“Gavoglio tessuti. Novità per signora, stoffe in lana, seta ecc.”
Che dite, entriamo? Non appena la porta a vetri un po’ traballante ha percorso mezzo giro, sento
suonare un dolce campanellino che annuncia il mio ingresso. Da dietro all’imponente banco in
legno intagliato, gli occhi della signora Gavoglio e figlia si puntano su chi scrive queste misere note.
Ma, non avendo il sottoscritto la minima importanza in tutto questo contesto, faccio un rapido
cenno alla signora di non badare troppo a me. Un negozio piccolo, circondato da imponenti scaffali
colmi di tessuti arrotolati. Un manichino che guarda nel vuoto, indossa un elegante abito di lusso,
completo di lustrini e bottoni dorati. Oltre alla signora e signorina Gavoglio, noto la presenza di
due signori. Quello alla mia destra lo conosco già, nel frattempo si sarà certamente ambientato, è
Domenico Guerrazzi, avvolto in un lungo cappotto blu scuro. E’ proprio vero che, i cinquantadue
anni che questo signore ha, li dimostra davvero tutti: alto, un po’ ricurvo su se stesso, sguardo
truce quasi aggressivo e provocatorio. L’ampia fronte lucida circondata da una pettinatura ben
curata ed ondeggiante, mento largo e squadrato che rivela un carattere decisamente volitivo e
risoluto. Occhialini ovali appoggiati sopra la gobbetta dell’abbondante naso, segno evidente di
testardaggine e fedeltà ai propri valori. Se ne sta lì, con un sorrisino un po’ ebete che contrasta
terribilmente con quando ho descritto fino ad ora. Perché quel sorrisino così ingenuo, stupido e
soprattutto fuori luogo, che fa a botte con la sua vera personalità? Eh già, ma guarda un po’ a chi
sono rivolte, tutte queste sdolcinatezze che rimbalzano scandalosamente fra le stoffe colorate del
negozio, fin quasi a sfiorare il ridicolo. Non già nei confronti della signora Gavoglio di pari età, ed
essendo anche una bella donna, la cosa finirebbe per giustificare abbondantemente il tutto:
queste particolari attenzioni invece, sono rivolte alla di lei figlioletta diciottenne, alla bella e
giovane Rachele. Debbo confessare che, mentre annoto tutto questo, provo un certo imbarazzo
per loro, fin quasi a sentirmi a disagio. Ma il mio compito, si limita semplicemente ad annotare
tutto questo e niente di più. L’altro uomo di fronte al bancone, alla mia sinistra, è un giovane
ventenne o forse qualcosa meno, un coetaneo della signorina Rachele. Magrolino, non altissimo,
pallido in viso tendente quasi al ceruleo, con due baffetti da sparviero che ne innalzano la dignità,
occhi grandi e scuri che conferiscono al giovane uno sguardo penetrante che trabocca di lealtà.
Capelli neri infine, tirati coraggiosamente all’indietro e solcati da una profonda riga centrale. E’
Cesare Abba, che fra non molti anni diventerà anch’egli, esattamente come il Guerrazzi, uno
scrittore ed un politico di successo. Soltanto che…al momento attuale, è soltanto un giovane di
belle speranze, iscritto all’Accademia delle Belle Arti, su in Piazza San Domenico, (oggi De Ferrari) e
niente di più. Si dà il caso che la madre di lui, sia buona amica della signora Gavoglio: le due
signore infatti, si conoscono da parecchi anni e spesso la mamma dell’Abba si reca in questo
negozio a fare acquisti. Il buon Cesare aveva usato il pretesto di passare da lì, per vedere se per
caso ci fosse stata sua madre. Soltanto una scusa, un banale appiglio per poter vedere, anche
soltanto per pochi minuti, la bella Rachele. Ma, anche lui, a giudicare dal suo sguardo così
mortificato, aveva da pochi minuti, fatto la stessa scoperta di che scrive.
“Hai mai veduto la figlioletta della signora Gavoglio? Una bella ragazza davvero, ha più o meno la
tua età…”
gli disse un giorno sua madre, con una strana aria di complicità. E da lì, con la penosa scusa di
passare a prenderla, usciva dall’Accademia di gran corsa per intrufolarsi giù nei vicoli, fino a
giungere tutto speranzoso in Piazza Della Posta Vecchia. Ma adesso, adesso il mondo per lui si
stava sgretolando ai suoi piedi. Era fin troppo evidente anche per lui che fra “quei due”,
nonostante la differenza di età ci fosse qualcosa di tenero, come era altrettanto evidente che la
bella Rachele aveva idee ed obbiettivi piuttosto chiari. Uno scrittore di successo, falsamente
bohémien ed affascinante per via delle sue intrepide e scapestrate avventure…al cospetto di uno
sbarbatello, squattrinato e soprattutto sconosciuto ventenne: una lotta davvero impari. I suoi
pensieri così deprimenti e irrimediabilmente tristi sono interrotti dalla voce della signora Gavoglio:
“Signor Abba, sua madre è andata via proprio qualche minuto fa…”
Appena udito questo nome il Guerrazzi ha come un sussulto. Smette bruscamente di sorridere a
Rachele e rivolgendosi all’Abba dice:
“Mi permetta…lei è Abba? Cesare Abba?”
Il giovane ancora depresso si stupisce di tanta improvvisa notorietà e fa un gesto affermativo.
“Permette? Domenico Guerrazzi.”
L’espressione dell’Abba questa volta non tradisce alcuna emozione, ma dentro di sé, sta ribollendo
un autentico vulcano.
“E’ dunque lui, il nobiluomo, il grande repubblicano, l’eterno esiliato e carcerato…”
pensò fra sé nei brevi istanti che accompagnavano la vigorosa stretta di mano.
Domenico Guerrazzi dunque, sulla strada di Cesare Abba, quando si dice il destino, la fatalità.
Entrambi sapevano di avere, per pura coincidenza, un amico comune, un amico che purtroppo era
morto due anni fa: Federico Peschiera. Mentre Cesare e Domenico si scrutano e si perdono nei
convenevoli che dovrebbero portare alla conoscenza l’uno dell’altro, ci spostiamo per qualche
istante da Piazza Della Posta Vecchia in Valbisagno. So benissimo che ci siamo allontanati un po’
troppo da Cornigliano e dalla sua invitante Villa Pellegrini, ma questi spostamenti in città, ci sono
utili per ricucire, per tenere assieme i cinque personaggi che danno forma a questa storia. Una
piccola frazione sopra a Molassana, Pino Soprano, una modestissima famiglia talmente povera da
non potersi nemmeno permettere il lusso di mantenere decentemente il proprio figlioletto, il
piccolo Federico, che verrà affidato ad un barbiere del paese con l’intento di avviarlo già dalla
tenera età, al mondo del lavoro che lo attendeva con impazienza. Ma Federico, già da allora aveva
un segreto nelle sue dita, una piccola dote che passeggiava nervosamente fra le sue manine scarne
e le poche matite sgangherate che già possedeva. Disegnava tutto quello che vedeva: oggetti,
quadri appesi, vasi di fiori e qualunque cosa entrasse nel suo campo visivo. Si distraeva dal lavoro,
non puliva il pavimento dai capelli tagliati, non preparava la schiuma per radere le barbe più irsute
ma…disegnava a modo suo. Fu così che un ufficiale di marina si accorse di questo precocissimo
ragazzino di talento e lo raccomandò direttamente al Marchese Durazzo che provvide a dargli un
sussidio mensile di 15 Lire. Con questo aiuto esterno il ragazzino poté compiere gli studi di base,
scuola elementare e superiore e mettersi in evidenza vincendo anche dei concorsi. In seguito, il
tipografo-editore Antonio Ponthenier nel 1830 fondò la rivista “Il Magazzino pittorico” e lo
assunse per svolgere la parte artistica. Per due anni andò avanti così finché nel 1832 venne
chiamato alla leva militare e questo fatto poteva significare la fine dei suoi “sogni pittorici”. Ma
anche qui, in suo favore intervenne un Marchese, Giancarlo Serra, che lo sottrasse dall’obbligo
militare accompagnando questa cortesia con un discreto aiuto economico. La sua vita ebbe una
svolta decisiva: andò a Firenze per qualche anno a perfezionare i suoi studi e le sue tecniche e nel
1838 si ritrovò a Pisa, proprio con il Guerrazzi, per illustrare alcuni suoi scritti. Due anni di
collaborazione proficua e di sincera amicizia fecero il resto. Proprio in questo fortunato biennio,
Federico, durante una pausa dal lavoro, in pieno relax, pensò bene di fare un ritratto al Guerrazzi,
ritratto che il pittore conservò per sé anziché farne dono al suo amico. Nel 1840 quindi, pittore e
ritratto fecero ritorno a Genova. Più tardi venne nominato “Accademico di merito” e nel 1848 fu
impegnato in Piazza Sarzano, nella Chiesa San Salvatore, a dipingere un medaglione nella volta
centrale della chiesa stessa. Da li in poi, cominciò ad affermarsi e raggiunse una certa notorietà a
Genova come nel resto d’Italia. Per l’Accademia di Piazza San Domenico, (oggi De Ferrari) fu un
vero punto di riferimento. Poi improvvisamente, ebbe una strana ed imprevista involuzione nello
stile che gli procurò parecchie critiche: non era più ben visto, non era più nelle grazie
dell’Accademia e si trascino così in questo “fuoco nemico” fino al 1854: infausto e per lui terribile
1854. Proprio in quell’anno, in piena crisi di identità, all’Accademia conobbe il giovinetto di appena
sedici anni, Cesare Abba per l’appunto. I due legarono subito assieme anche perché Cesare,
nonostante la giovanissima età, dimostrava già in pieno tutta la sua maturità. Federico confidò
all’Abba tutte le sue delusioni le sue sconfitte e proprio in quei pomeriggi trascorsi a bere qualche
boccale di vino buono, gli fece dono dell’ormai famoso ritratto del Guerrazzi. Ma la sua sorte
ormai era segnata: volle cocciutamente lasciare Genova e tutte le critiche che lo circondavano. Si
imbarcò in tutti i sensi, in un’avventura più grande lui. Se recò in Francia fino al porto Le Havre e
da qui, a bordo di un veliero americano, il Malhouse, partì per New Orleans in Louisiana. Un
viaggio per mare di quasi due mesi per cambiare vita, per trovare nuovi consensi e nuovi successi:
durante il viaggio si ammalò di febbre gialla e morì pochi giorni dopo. Fu buttato in mare, come un
qualsiasi rifiuto. Da Molassana all’Oceano Atlantico, che se lo prese e lo inghiottì per sempre. Solo
diciotto anni prima, in un momento di svago e forse di felicità aveva fatto quel “ritratto galeotto”
che in questo preciso momento metteva di fronte l’uno contro l’altro, un signore ed un ragazzo:
Domenico Guerrazzi e Cesare Abba nel negozio di tessuti della signora Gavoglio in Piazza Della
Posta Vecchia, a Genova.
“Se non mi inganno, Lei dovrebbe essere in possesso di un mio ritratto eseguito dall’amico
Peschiera, o sbaglio? “
Disse il Guerrazzi in tono forzatamente gentile, quasi come una sentenza definitiva ed
inappellabile. Cesare ormai lo detestava: detestava la sua impertinenza, il suo essere così rozzo e
poco gentile, talmente sbrigativo da apparire insolente. Detestava inoltre, il suo “eroismo di
facciata” perché soltanto un anno prima, si era rifiutato di dare aiuto ad alcuni esuli repubblicani
che, perseguitati dal governo, tentavano di lasciare Genova per mettersi in salvo. Detestava infine,
quel suo spudorato interesse per Rachele, così fuori luogo, così sconveniente e così poco… onesto.
Ma del resto, era proprio la stessa Rachele a reggere e compiacersi di questo gioco, senza che
nessuno la obbligasse.
“Nemmeno morto.”
Pensò dentro di sé. Proprio per tutte queste sacrosante ragioni, Cesare non aveva la minima
intenzione di cedere al Guerrazzi il suo ritratto. E iniziò così ad opporre una decisa resistenza al suo
incalzare, sostenendo che al momento non si ricordava se lo avesse nella casa di campagna oppure
se lo conservasse qui in città, in qualche cantina. Mentendo ancora più spudoratamente, lo
rassicurò che, qualora lo avesse ritrovato, ne avrebbe certamente dato notizia alla signora
Gavoglio. Era fin troppo evidente che, tanto il Guerrazzi quanto la bella Rachele, avevano per
sempre chiuso con la sua vita. Ecco quindi un quadro, un quadro che in un primo momento
sancisce amicizie per saldarle alla base, ed allo stesso tempo, lo stesso quadro che, a distanza di
pochi anni, le amicizie le fa saltare per aria, le disintegra. Un quadro tratteggiato a matita con
sapienti sfumature, nato a Livorno da un’amicizia fra un giovane pittore di Molassana ed un
affermato scrittore livornese e spostatosi infine a Genova nelle mani di un altro amico che, un po’
per gelosia ed un po’ per repulsione spontanea, porrà termine a questa ipotetica catena di
solidare amicizia. Le due lampade a petrolio che illuminano la bottega di Piazza Della Posta Vecchia
si spengono lentamente, lasciando al buio le ombre immobili e silenziose dei quattro personaggi.
Ritorniamo definitivamente a Cornigliano da dove siamo partiti e dove ci interessa stare,
ritorniamo a Villa Pellegrini, dove “Quei due”, Domenico e Rachele se la intendono alla grande.
“Quei due” cominciarono proprio davanti all’imponente cancello di Villa Pellegrini, quello che dà
sulla Via Provinciale. Lui che usciva a testa bassa, avvolto nei suoi pensieri di cospiratore e lei che
entrava reggendo un cesto pieno di biancheria pulita; lui che le cede cavallerescamente il passo e
lei che ringrazia con un sorriso incantevole. “Quei due” iniziarono proprio così, tre mesi di folle
amore. Da Natale a Pasqua, nella bella Cornigliano, si amarono furtivamente ora nella stanza di lui
ora nella camera di lei, sempre ai limiti della clandestinità. La giovane locandiera di Villa Pellegrini
intenta a ricevere sempre nuovi clienti e a sistemare al meglio le camere della sua piccola Locanda
ed il maturo esule ricercato, che dalla sua stanza scriveva in continuazione lettere ai patrioti sparsi
per Genova e l’Italia. “Quei due” forse non si amavano propriamente, la loro, con tutta probabilità,
era soltanto un’infatuazione passeggera, un’attrazione reciproca del tutto provvisoria. Il divario di
età ma soprattutto il particolare giudizio che aveva lui sulle donne, non garantivano certo stabilità
a questa relazione di contrabbando. Lui stesso, in alcuni suoi scritti ebbe modo di affermare:
“…il matrimonio è il sepolcro dell’amore, però dell’amor pazzo, dell’amor sensuale…”
“…in amore, solo gli inizi hanno un fascino. Non mi sorprende che si provi piacere a ricominciare
spesso…”
“Noi italiani ci innamoriamo in chiesa…”
Questo quindi, era esattamente quello che il Guerrazzi pensava delle donne. Del resto, la sua vita
era molto densa di schermaglie politiche, seguiva con molta attenzione le vicende dei patrioti che
si opponevano, tanto alla politica del Cavour quanto agli austriaci. Una ragazza come svago, una
ragazza come disimpegno momentaneo, ci poteva anche stare. “Quei due”, nelle giornate di sole
sferzate dalla gelida tramontana, passeggiavano lentamente giù alla Marina: chiacchieravano, si
raccontavano l’un l’altra le loro vicende e a volte, senza che se ne rendessero conto, finivano con
l’arrivare fino allo scoglio di Sant’Andrea. Al Guerrazzi piaceva Cornigliano, da buon livornese
amava il mare, gli piaceva averlo così vicino, poterne disporre a suo piacimento, vederlo, sentirne
il suo sale nell’aria nelle giornate di vento e poi si era anche innamorato della collina di Coronata
dove di tanto in tanto vi si avventurava per dominare Cornigliano e Genova dall’alto. Poi lei, come
destatasi da un sogno, all’improvviso, a passo spedito faceva ritorno alla Locanda dove la
attendevano un sacco di incombenze. Quella della Locanda era proprio una sua passione. Era
davvero portata per questo mestiere, a gestire i clienti, viaggiatori di commercio, gente di
passaggio e perfino qualche turista dato che Cornigliano a quei tempi era davvero una località
speciale. Il suo sogno, la sua massima aspirazione era appunto quella di poter gestire un giorno, un
grande albergo, un Hotel di lusso con clientela selezionata ed importante. Ma per ora, c’era da
tirare avanti questa piccola Locanda e di tanto in tanto, aiutare la mamma nel negozio di tessuti,
giù in centro. Passò il Natale del 1856, passò, con l’anno nuovo, anche l’inverno e con la primavera
alle porte, il rapporto fra “Quei due” iniziò a scricchiolare. Qualche piccolo screzio, qualche
incomprensione, qualche brutta risposta data un po’ troppo frettolosamente, finché non subentrò
subdolamente un pizzico di indifferenza che provvide a dare la spallata definitiva a quel rapporto
che già non si reggeva più in piedi. Si era esaurita la spinta iniziale, si era smarrito il fascino
dell’avventura e dell’imprevisto e perfino quel pizzico di trasgressione che fin qui aveva sorretto il
rapporto fra “Quei due”. “Quei due”, tanto per essere chiari, erano entrambi stufi l’uno dell’altra e
ormai si sopportavano a stento. Fintanto che, arrivò come una manna dal cielo, la svolta: un amico
del Guerrazzi passando un giorno a trovarlo a Cornigliano, per portargli la corrispondenza di alcuni
patrioti, lo informò che si era liberato un bell’ appartamento a Villa Giuseppina, in salita San
Rocco. Il Guerrazzi non se lo fece dire due volte: radunò lo scarso bagaglio che aveva disseminato
per la sua stanza e pochi giorni dopo si trasferì nel quartiere di San Teodoro, nell’attuale Via
Bologna. Cornigliano così, perdeva Domenico Guerrazzi. Rachele a sua volta perdeva Domenico o
se preferite, Domenico perdeva Rachele non sapendo ancora che, la Storia a volte, gioca strani
scherzi e delle curiose sorprese.
Sparito il Guerrazzi da Villa Pellegrini e da Cornigliano, la bella Rachele iniziò una nuova vita in tutti
i sensi. Era giovane, anzi giovanissima, molto carina e soprattutto molto determinata: questa sua
forza nel carattere era proprio la garanzia di successo e di affermazioni future. Per qualche mese si
buttò capo e collo nel lavoro senza badare affatto ai sentimenti. Nella Locanda c’era da lavorare
sodo, i clienti certo non mancavano e questo contribuì a consolidare le sue idee e soprattutto i
suoi sogni nascosti. Appena ne aveva l’occasione, era solita abbandonarsi ai suoi pensieri in piena
libertà, fantasticava un Hotel tutto suo, da gestire con le sue idee, da modellare con i suoi progetti
che già da tempo aveva ben chiari nella sua mente. Cornigliano era un posto bellissimo: c’erano un
sacco di ville patrizie e ville liberty sulle basse colline che contribuivano ad abbellirla, ad
impreziosirla. C’era il mare poi, una fantastica spiaggia di sabbia e scogli che la percorreva per
intero, dal Ponte situato all’estremo di Levante, fino allo Scoglio di Sant’Andrea all’estremo di
Ponente. Non di rado, le carrozze di passaggio, arrivate a Cornigliano, si fermavano bruscamente.
Chi ne era a bordo voleva scendere, voleva andare a vedere di persona quanto fosse bella. Questo
quindi, sarebbe stato davvero il posto più adatto per dare vita a quel suo “fantastico” Hotel di
lusso ma, fra il dire ed il fare, come sempre c’era di mezzo il mare, quello di Cornigliano in questo
caso. Il mare inteso come difficoltà, come ostacolo da superare. Ebbene, questo “ostacolo da
superare” si presentò proprio alla Locanda qualche anno dopo, nelle sembianze di un uomo.
“L’ostacolo da superare” si chiamava Giacomo Pellegrini, avvocato pisano di successo e
soprattutto unico proprietario della villa dove trovava posto la Locanda di Rachele. L’avvocato
Pellegrini inoltre, possedeva tutto il terreno che dalla villa stessa, arrivava fino alla Marina. Tanto
per intenderci, il terreno dove passerà la futura Via Regina Margherita, oggi Via Gattorno. Un
piccolo impero, insomma. Quel giorno l’avvocato, accompagnato da un suo dipendente, aveva
deciso di conoscere di persona la signorina che gestiva la Locanda e della quale aveva sentito
parlare. C’era infatti da riscuotere l’affitto trimestrale della Locanda stessa e lui volle essere
presente. Infatuazione? Colpo di fulmine? Non ho la certezza che esistessero già nell’800, ma di
sicuro, il facoltoso avvocato rimase colpito dalle grazie di Rachele e soprattutto dalla sua
disinvoltura ed intraprendenza. Rachele non appariva affatto intimorita e sembrava addirittura a
suo agio nel mostrare all’avvocato, come avesse organizzato nel suo piccolo, la modesta Locanda.
Inutile dire che tre mesi dopo, alla successiva riscossione dell’affitto, il Pellegrini si presentò
nuovamente e questa volta da solo: la quota d’affitto da riscuotere, non era più il piatto forte.
Stava nascendo, ancora lì e ancora a Villa Pellegrini, (che continuerà a chiamarsi così ancora per
poco), una nuova e ben più duratura storia d’amore. Erano gli anni ’60 dell‘ ‘800 e lentamente si
stava preparando una sorta di “Boom” pari a quello degli anni ’60 del secolo successivo. Corsi e
ricorsi della Storia. La piccola Cornigliano, con i suoi 2700 abitanti, stava per spiccare il volo, stava
per iniziare la sua profonda trasformazione ed alle porte iniziava a vedersi un vero e proprio piano
urbanistico che avrebbe cambiato seriamente i connotati di questa parte della città. Da pochissimi
anni, giù alla Marina era stata inaugurata la Stazione Ferroviaria, della linea Sampierdarena-Voltri.
Sempre alla Marina, fra il 1860 e il 1861 (oggi nella parte a Ponente di Via Bertolotti), venne
impiantata una fabbrica di vagoni ferroviari di proprietà di un certo signor Colano. La vita di questa
industria fu davvero breve e, soltanto un anno dopo, chiuse i battenti, lasciando in eredità forse, la
prima ciminiera delle tante che seguiranno. Una ventina di anni dopo nella stessa struttura
subentrerà il ben più noto e longevo “Cotonificio” amministrato dal Commendatore Adolfo Durst.
Per la cronaca, la presunta prima ciminiera di Cornigliano, è ancora oggi al suo posto, nelle vesti di
monumento storico del passato corniglianese. Nelle strade, soprattutto nella centralissima Via
Provinciale (oggi Via Cornigliano), esordiva l’illuminazione a gas e compariva la figura suggestiva
del lampionaio. Nel 1863 poi, Cornigliano si impreziosiva ulteriormente con la presenza del
Principe Oddone, figlio sfortunato del Re Vittorio Emanuele II. Si stabilì infatti a Villa Bombrini per
curare le sue tante, troppe malattie. L’avvocato Pellegrini si dichiarò ufficialmente a Rachele e si
recò a chiedere la sua mano alla signora Giuseppina Gavoglio, la quale, in un impeto di entusiasmo
di fronte ad un “simil partito” acconsentì di buon grado. Erano passati soltanto pochi anni
dall’avventura con il Guerrazzi e Rachele aveva iniziato una nuova storia sentimentale, quella
definitiva. A guardar bene, era passata da un livornese ad un pisano e, dal punto di vista delle
antiche rivalità storiche, non c’era di sicuro da stare allegri, ma in amore, tutte queste congetture
non hanno alcun significato. Nel 1868 finalmente arrivarono i fiori d’arancio e la coppia convolò a
nozze. La Locanda ovviamente venne chiusa e la “Signora Pellegrini” ormai, dall’alto della sua
nuova sistemazione sociale, non poteva di certo occuparsi più di queste modeste mansioni.
Tuttavia, nonostante il matrimonio e nonostante il netto avanzamento sociale, il sogno dell’Hotel
viveva sempre dentro di lei. E chi, meglio del facoltoso avvocato Pellegrini, poteva permettergli di
realizzare un sogno di questa portata? Bastava solo saper aspettare e per adesso, la bella Rachele
si godeva i progressi di Cornigliano e badava a fare la “signora”. Nei primi mesi del 1870 è in “dolce
attesa” e proprio in questo periodo così felice, inizia a progettare con il marito Giacomo, il futuro e
tanto desiderato Hotel. Le stanze, i saloni, l’arredamento, adesso Rachele può disporre
interamente di Villa Pellegrini, altro che la modesta Locanda e il progetto è davvero serio ed
ambizioso. Arriva così il Novembre del 1870 ed arriva il primo erede della famiglia Pellegrini: Paolo
Emilio. Rachele vive l’esperienza di madre con molto impegno ma, tant’è, fra una poppata e l’altra
il suo pensiero si insinua sempre nell’Hotel ed alla sua progettazione, affinché questo sogno che
dura da tanti anni, possa prendere una fisionomia ben precisa. Il 1872 è un anno piuttosto
importante: arriva anche il secondogenito, Ubaldo e, il progetto per il nuovo Hotel è pressoché
ultimato. Resta soltanto la sua realizzazione pratica. Iniziano così i lavori di ristrutturazione della
Villa che porteranno alla nascita del “GRAND HOTEL VILLA RACHEL”. Il sogno coltivato sempre da
Rachele va ben oltre il consentito: non più la vecchia dicitura “Villa Pellegrini” ma una
sorprendente “Villa Rachel”, dando cioè al suo nome Rachele, molto italiano, una sorta di
internazionalizzazione che la dice lunga sulle ambizioni del grande albergo.
Il 23 settembre del 1873, nel pieno dei lavori, a Rachele giunge una triste notizia: a Cecina, in
provincia di Livorno, si è spento Domenico Guerrazzi. Soltanto diciassette anni prima, i due erano
amanti proprio sotto quello stesso tetto sul quale lei stessa stava progettando il suo futuro. La
notizia non la sconvolse più di tanto: un po’ gli anni trascorsi, un po’ la brevità della loro relazione,
un po’ due figli a cui badare e soprattutto… ”Villa Rachel” che a grandi falcate stava arrivando a
bomba sul suo presente. Tuttavia, una lieve parentesi di tristezza, rallentò per qualche giorno il
suo slancio produttivo. Ma a Cornigliano, tutto stava crescendo, tutto era in divenire. Quello
stesso anno, suo marito Giacomo Pellegrini diventerà addirittura Sindaco di Cornigliano. Sono anni
di autentico splendore, per la famiglia Gavoglio-Pellegrini.
Arrivò così il 1875, a Cornigliano come in ogni altra parte del mondo. Nella odierna Piazza Rizzolio,
cercate di immaginare: immaginate un’imponente cancellata che separa la Via Provinciale (oggi
Via Cornigliano) dall’interno della villa ed un cancello di servizio in Via de Amicis (oggi Cervetto);
immaginate oltre il cancello, un giardino confortevole popolato da piante di aranci, eucalipti e tigli.
Immaginate l’interno della villa: due grandi ed eleganti saloni ben illuminati a disposizione della
clientela, una sala biliardo per chi non sa rinunciare al gioco e un bar, che cento anni dopo vedrà
proprio me, confabulare con “U Tranviere “del Genoa e della Sampdoria. Camere confortevoli di
cui alcune in stile sud-orientale e tutte dotate di caminetto e servite da acqua corrente. Il costo
per potervi alloggiare è di otto lire al giorno. Avete immaginato? Benissimo, siete i benvenuti al
“Grand Hotel Villa Rachel” di Cornigliano. E’ la vittoria, ahimè provvisoria, di Rachele Gavoglio che
non bada a spese, non vi baderà talmente tanto, da pregiudicare il suo futuro nemmeno troppo
lontano. Ma per ora, è soltanto gloria: addirittura a Cornigliano fa il suo ingresso il primo medico
condotto: il Dott. Boraggini che arriva da Voltaggio e che ovviamente, almeno in un primo
momento, avrà il suo studio medico proprio all’interno dell’Hotel. Un servizio di questo genere,
rappresenta davvero un’esclusiva per la clientela. In seguito verrà sostituito da un medico inglese
sempre per dare un tono internazionale all’Hotel. In mezzo a tutte queste novità, arriva anche il
terzo figlio, Mario. L’hotel corniglianese in breve tempo, diventa un vero e proprio punto di
riferimento, anche in campo internazionale, comparendo in tutte le guide turistiche d’Europa. Nel
1878 vi alloggerà, fra gli altri, il deputato e poeta piemontese Luigi Rocca, che rimarrà talmente e
soprattutto favorevolmente impressionato da questo soggiorno, da dedicare un’intera poesia
all’Hotel. Uno “sponsor” di notevole efficacia. L’anno successivo addirittura, viene pubblicato un
libro, che in realtà è una vera e propria guida turistica per centri termali di benessere, dove
ovviamente compare l’Hotel Villa Rachel con una recensione quanto meno lusinghiera. Si tratta de
“Stazioni termali nel Mediterraneo: da Hyeres a La Spezia” di Edward Isaac Snacks. L’autore di
questo testo soggiornerà a Cornigliano per qualche giorno facendo la conoscenza di “Madame
Rachel” e del suo splendido Hotel. Il 1879 sarà l’ultimo anno di vero splendore e serenità per
l’Hotel. Già all’orizzonte iniziano a comparire i primi spettri di una crisi finanziaria: i primi debiti,
investimenti avventati e forse un poco pretenziosi. In quell’anno arriverà anche l’ultimo erede,
sempre maschio: Ferruccio. Badare a quattro maschietti con età compresa fra i nove anni in giù
non è davvero cosa semplice. Lo slancio passionale di Rachele inizia a rallentare e lei stessa non
sembra avere più quell’intraprendenza giovanile di qualche anno prima. Iniziano ad accumularsi i
primi debiti su alcune forniture per l’Hotel. La situazione si trascina così fino ai primi mesi del
1880, quando Rachele decide di arrendersi e nell’Aprile dello stesso anno affida in gestione l’Hotel
ad un certo Giuseppe Felil un piccoletto quarantenne di belle speranze ma con tutta probabilità, di
scarse finanze. Gestirà l’Hotel per l’intera stagione estiva fino a Settembre per poi alzare bandiera
bianca. Nel frattempo, Giacomo Pellegrini, marito di Rachel, si ammala, inizia a non stare bene e a
non essere più in grado di badare ai suoi tanti interessi. L’intera struttura, l’impalcatura della loro
vita sta scricchiolando pericolosamente. Quello stesso Settembre riesce a dare in gestione l’Hotel
un una coppia veramente convinta e determinata: i signori Detraz e Paniglio, che sembrano avere
le idee piuttosto chiare circa la conduzione dell’Hotel. Rachele medita, medita a lungo e, con la
scusa della salute del marito Giacomo, decide di trasferirsi a Pisa, nelle vecchie proprietà del suo
consorte, per sottrarsi da quel vespaio che è improvvisamente diventata per lei, Cornigliano. I
debiti la circondano e non la fanno stare tranquilla. I Detraz e Paniglio nel frattempo, iniziano la
loro avventura all’Hotel e nonostante gli scossoni finanziari di Rachele, riusciranno a stare in sella
per ben dieci lunghi anni. L’anno successivo, nel 1881, Rachele inizia una fitta corrispondenza con
il Comune di Cornigliano: c’è in gioco un progetto ambizioso che comprende le numerose
proprietà del marito Giacomo. Oltre all’Hotel, tutto il terreno che da lì porta alla Marina è di loro
proprietà ed il Comune vorrebbe renderlo di pubblica utilità allo scopo di realizzare una strada di
comunicazione che attualmente manca, una strada per collegare il Borgo superiore alla Marina.
Stiamo parlando ovviamente di quella che sarà Via Regina Margherita (oggi Via Gattorno): con
questa concessione, la famiglia Pellegrini-Gavoglio avrebbe dal Comune, la concessione per
l’edificazione di ben quindici caseggiati. Un progetto mastodontico e, frugando maleducatamente
fra le tasche di Rachele, piuttosto irrealizzabile, ma tant’è, la Gavoglio continua imperterrita. Il
Comune infatti acquista il terreno per la nuova strada ma il progetto non decolla perché Rachele
non ha più soldi ma soltanto debiti, debiti e ancora debiti. Quello stesso anno, con la morte di
Giacomo Pellegrini, resterà vedova. Nel 1885 sboccia una gemma destinata a fare “storia” se non
“epoca”. Sullo scoglio di Sant’Andrea, nasce il Castello Raggio di proprietà del Conte Edilio Raggio e
per mano dell’ingegner Rovelli. Con questo “tassello aggiuntivo” Cornigliano raggiunge l’apice
della bellezza e dell’interesse turistico. A pochi metri di distanza invece, nella futura Piazza
Rizzolio, Villa Rachel ha iniziato il suo triste declino. Sempre nello stesso anno, 1885, spuntò fuori
l’ambizioso progetto dell’ingegner Naricci, architetto di Nizza, che fece traballare e mise in
difficoltà il Comune di Cornigliano che tardava a prendere una decisione. Ma già nel mese di
Giugno, Rachele si arrende e chiede al Comune di non dare corso alla dichiarazione di pubblica
utilità di quei terreni in quanto, essendo assediata dai debiti, vorrebbe venderli, assieme ai terreni
vicino alla spiaggia intestati ai figli, mettendo sul piatto della bilancia anche la Villa Rachel. Siamo
all’epilogo. Nel 1886 Rachele cede gratuitamente al Comune, Villa Rachel ed il giardino
circostante. E’ la fine annunciata di un’epoca. Da qui, le notizie sulla ex amante di Domenico
Guerrazzi, nonché moglie di Giacomo Pellegrini, si perdono nei meandri di oscure biblioteche.
Com’è lontana quella Rachele del negozio di stoffe in Piazza Della Posta Vecchia, com’è lontana
quella Rachele che gestiva una piccola Locanda. Da qui in poi, non sono stato più in grado di
trovare notizie sul suo conto, se non degli innumerevoli atti processuali che si sono generati a
causa della gran quantità di cambiali che aveva emesso nel corso degli ultimi anni. Immagino abbia
continuato a vivere a Pisa per tenersi lontana da polemiche e relativi pettegolezzi. Fatto sta, che
mi è sfuggita di penna, l’ho persa: la storia, i documenti ufficiali e le notizie, me l’hanno nascosta.
Non posso più continuare a scrivere di lei, non la vedo più.
La villa intesa come tale invece, avrà una piccola appendice prima di polverizzarsi definitivamente
sotto le pale delle ruspe. Dopo la data del fallimento, 24 Novembre 1892, la villa sarà abitata da
una famiglia non precisata, avente l’unico scopo di custodire la stessa ed i suoi mobili conservati
all’interno. Nel 1900 avrà l’onore di trasformarsi in Municipio di Cornigliano per ben sedici anni
ma, sarà il canto del cigno. Nel 1919 diventerà scuola Tecnica per Macchinisti Navali e nel 1921
sarà Biblioteca fino al 1926. Per alcuni anni rimarrà poi disabitata per essere infine demolita dalle
“ruspe di regime” nel 1935, per far posto alla Casa del Popolo.
Il mio lavoro di ricerca purtroppo si ferma qui, si blocca per…mancanza di ricerca. Si abbandona, si
accartoccia su sé stesso in Piazza Rizzolio da dove è nato, da dove è partito o se preferite, da dove
ha preso forma e non sa più proseguire. Dentro alla Bocciofila Corniglianese, quella degli anni ’70,
fra bicchierini di barbera, bianchi con l’amaro e caffè corretti con l’anice si è fatto un silenzio cupo
e tutti stanno guardando me e “U Tranviere”. Lui, appoggiato al banco che rimescola lo zucchero
nella tazzina marchiata “Rostkafé”, ed io, sbarbatello secco come un’acciuga che lo ascolto.
Ricordi a scoppio ritardato, ricordi che per far ritorno alla mente, non devono compiere grandi
imprese perché conoscono fin troppo bene la strada. Sapevo di Villa Rachel già dal 1973, ma non
me ne ero mai interessato: poi appunto, nel corso di una della tante mie “edizione straordinaria
del ricordo”, il volto del tranviere, il volto di chi conosceva la storia o quanto meno l’esistenza di
Villa Rachel, si è formato davanti a me e la miccia si è di colpo accesa. Reperire materiale non è
stato facile o forse io stesso non sono stato in grado di recuperarne più di tanto, ma fra me ed il
mio amico tranviere c’era un patto, una promessa sancita davanti ad una tazzina di caffè: un
giorno, non so come e quando, ti verrò a cercare e ti troverò. Cercando Villa Rachel in fondo,
cercavo proprio lui, il suo ricordo di cinquanta anni fa. Ah… quasi dimenticavo: vale la pena di
sottolineare un aspetto quanto meno curioso. A pochissimi metri da dove sorgeva Villa Rachel, per
l’esattezza dentro a Villa Gentile Bickley di Via Cervetto, oggi è presente la Biblioteca
Civica…ehm…Domenico Guerrazzi. La cosa vi dice niente o si tratta soltanto di una combinazione?
Tutto sommato, credo che a noi piaccia pensare che “Quei due”, non si siano mai del tutto lasciati
o quanto meno allontanati troppo.
” …A Genova, basta subire la tentazione del primo tram che si avvii alla riviera. Da Piazza Carlo
Felice, o da altrove vi punge il desiderio di correre al galoppo convenzionale di tre o quattro cavalli,
sino a Villa Rachel, sino a Cornigliano…”
Tratto da “Quattro Ritratti: Verdi a Genova” di F. Giarelli 1880

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